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Alessandro Cavalli. Il declino della sociologia: malinconie di un Maestro
La pasta è alla norma solo di nome. Vale un sei meno meno, anche se nella pizzeria berlinese si parla italiano. Tra una dozzina di commensali l’abbiamo ordinata solo lui e io. Lui è uno dei miei maestri, si chiama Alessandro Cavalli (in foto), sociologo insigne, anche se a molti lettori del “Fatto” non dirà molto perché non viene invitato in tivù, troppo pensatore per bucare il video. L’ho ritrovato nella capitale tedesca dopo un paio d’anni e ai giovani che stavano con me non è sembrato vero poterlo invitare alla cena prevista dopo il dibattito in libreria. Con il professor Cavalli, giovane assistente di Angelo Pagani, feci il mio primo esame di Sociologia alla Bocconi, metà lui metà Alberto Martinelli. Poi sempre alla Bocconi fui assistente di entrambi. Quanto tempo è passato, Alessandro? L’anziano professore ha da poco superato gli ottanta ma ha la curiosità di un trentenne. E’ venuto in libreria a sentire. E’ venuto in pizzeria per conoscere e scambiare idee. A Berlino sta circa sessanta giorni all’anno, rifugiandosi nei suoi studi e nelle sue frequentazioni tedesche grazie all’appartamento che ha preso nell’elegante quartiere di Charlottenburg. Spiega che si sta interessando dei processi educativi, che si sta dando da fare perché nasca in Italia una rete di insegnanti vogliosi di pensiero avanzato, capaci di mettersi in connessione tra loro.
Allargarsi, unirsi, è il suo verbo. Riflette sulla necessità di rafforzare i pilastri educativi della società italiana anche in politica. In Germania, dice, ci sono percorsi di educazione politica sostenuti da fondazioni e scuole vicine ai grandi partiti. In Italia i partiti sono stati delle chiese e questo ha impedito che nascessero coscienze politiche critiche, capaci di partire dai fondamenti della democrazia, ossia dalla partecipazione civile e dalle istituzioni. Il professore non sembra affatto in pensione quanto a curiosità intellettuale e meno che mai quanto a responsabilità sociale. I giovani italiani e tedeschi disposti intorno al tavolo, provenienti dalle occupazioni e dagli interessi più diversi, lo ascoltano. Qualcuno, tra quelli più addentro alle scienze sociali, è visibilmente emozionato. Sono famosi alcuni testi del prof, anche fra chi non li ha letti. Max Weber, le ricerche sui giovani, un fortunato e agilissimo “Incontro con la Sociologia” di circa vent’anni fa, e molto altro ancora. Ed è proprio parlando della sua disciplina che Cavalli confida un’amarezza che sembra un’ideale staffetta per la nuova generazione.
“Avevamo immaginato e abbracciato la sociologia perché ci sembrava la disciplina ideale per conoscere e anche cambiare il mondo. Non per fare carriera nell’accademia. Serviva a tenere uno sguardo largo sulla realtà, a vedere il tessuto fitto delle cause e delle relazioni tra i fenomeni, l’ultima cosa che avremmo immaginato era che la sociologia potesse produrre nuove separatezze, tanti piccoli campicelli. E’ invece è accaduto proprio questo”. Il messaggio di questo signore dall’eloquio pacato e dalla barba da pensatore ottocentesco cattura gli sguardi e le attenzioni di tutti. Nessuno parla più della pizza con troppo peperoncino o dell’ottimo vino sfuso. “Si sono formate iperspecializzazioni che si curano ciascuna il suo orto, generando linguaggi spesso incomunicabili. Io stesso quando prendo le riviste scientifiche di sociologia non capisco molte volte che cosa vogliano dire pezzi interi di saggi e articoli”. Nonostante i toni paciosi non ci potrebbe essere critica più radicale per i malvezzi di una disciplina incline a ribaltare la sua anima originaria. Non è un anti-accademico a farle, ma uno dei fondatori dell’accademia post-sessantottina, quella della ricerca sul campo, della teoria critica, del “pensare largo”.
Parla, riflette, e nei presenti sfonda la convinzione che abbia ragione. Che il re sia ormai nudo, con i suoi tabù, le sue formule esoteriche, il suo vocabolario sempre più fossilizzato. Il prof si gratifica con moderazione di quei consensi genuini. E, uscendo, dà appuntamenti importanti. Se ci fosse bisogno di lui per Berlino, è disponibile. D’altronde proprio lo scorso anno condusse una serie di affollati incontri sul dualismo Nord-Sud per l’Istituto italiano di cultura. Ma soprattutto è disposto a impegnarsi, lui alla sua età. per dare al suo paese, l’Italia, percorsi educativi più ricchi, più critici, più stabili. Perché alla fine un paese è la sua educazione. Lo guardano tutti ammirati mentre prende a tarda sera la metropolitana verso casa. “Meno male che c’è chi pensa ancora a queste cose”.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 27.1.20)
Nando
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