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Aldo Montagna. Storia di un prof che non voleva passare alla storia
Chi è “Francesca di Bologna?”. Lo schermo dell’I phone non parla subito al lettore. La memoria gioca a mosca cieca con la vita. Poi il guizzo. Forse Francesca la compagna di Aldo? È lei, dopo quasi vent’anni: Aldo non c’è più. Si abbassa un’altra saracinesca. Aldo era stato un leader anomalo del movimento studentesco del ’68, Università Bocconi. Non famoso, difficilmente si troverebbe un cenno su di lui nei giornali di allora. Ma silenzioso, modesto. Conosciuto e autorevole. Si sapeva che leggeva tanto, tantissimo, di tutto. Era tra i più anziani, nel senso che aveva 24-25 anni. E in quel guazzabuglio che era diventato il mondo giovanile stava come un pascià. Si librava sulla contestazione, a volte con durezza dottrinaria, molto più spesso con un’ironia tagliente che dissacrava la qualunque. E se l’ideologia debordava era pronto a consigliare al ragazzo delle scuole superiori che veniva ad abbeverarsene di leggersi piuttosto un bel romanzo o i prodigi di Asterix.
Affezionato soprattutto ai più giovani, influente, appariva una sorta di grande saggio anche quando giocava a pallone o a pallavolo. I colletti robespierriani, la chioma che vi si allungava sopra ma non troppo, facevano tutt’uno con l’inconfondibile accento calabrese jonico (i calabresi pullulavano in quel movimento, che grazie a loro preferì i mari del sud a Santa Margherita, Viareggio o Riccione). Tra un’occupazione e l’altra fu sindacalista eccezionale e fantasioso dei diritti studenteschi, estenuando in baruffe infinite Salvatore Grillo, il direttore dell’Opera universitaria, che finì per volergli bene. Ci feci un campeggio all’Elba, dormimmo a Capraia sotto le stelle. Poi le strade si separarono senza intenzione.
Mi cercò negli anni ottanta quando stava nascendo un nuovo movimento, quello antimafia. Lui che per un decennio si era occupato di fabbriche e popoli lontani senza dire una parola su quel che la sua Calabria stava allevando, si gettò da insegnante nel nuovo crogiuolo di speranze. Si mise di nuovo ad appassionare i giovani a valori in grado di cambiar loro la vita. A Bologna, dove si era trasferito e dove aveva messo su famiglia.
Non aveva dietro né partiti né associazioni. Ma la più grande manifestazione al chiuso di quei tempi in tutta Italia la organizzò lui, Aldo Montagna, praticamente da solo, mettendo a frutto le qualità rivoluzionarie accumulate nella temperie del ’68. Nel 1986, al Palasport, 12mila studenti per il maxiprocesso, con Franca Rame. E l’anno dopo fece il bis. I tipici colpi d’ala che consentono a un movimento di farsi grande e nazionale. Vi è traccia di quello sforzo titanico in un rapporto del Ministero dell’Istruzione sulla storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana. Lui si guardava, di nuovo felice come un pascià, le gradinate con i ragazzi assiepati e i loro striscioni contro la mafia. Era perfetto a quel punto, nella sua calabresità sovversiva: sessantottino e antimafioso, che più? Gli chiesi perché non scrivesse nulla di quel che aveva fatto. Annuiva sul bisogno, ma per quel genere di cose era pigro. Mi chiese, con la solita ironia, “ma vuoi passare alla storia?”.
Molti altri anni in mezzo e ci ritrovammo per un viaggio con un gruppo bolognese in un’isola greca. Con Francesca, appunto. Di nuovo libri. Sempre tanti, sempre di tutto. Ma la vita non ti fa mai incontrare più di tre volte, questo l’ho imparato. Dopo un malvagio miscuglio di dolori ha chiesto di diventare cenere. Di essere sparso nelle acque di Itaca (in foto, la statua di Ulisse). Di finire il suo viaggio nelle acque del più leggendario viaggiatore di ogni tempo. Mi fa solo male pensare che nel movimento antimafia di oggi nessuno sappia chi sia stato il professor Aldo Montagna di Bologna. A volte si conoscono i bruscolini, ma non i giganti. Poi però mi rivedo quella sua risata beffarda: “ma vuoi passare alla storia?”.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 20.7.20)
Nando
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