I cento fiori della legalità. Come vederli, come sentirli

Quant’è bella giovinezza. E soprattutto: quanto è bello incontrarla più volte mentre è in cammino. Ritrovare i giovani che si fanno adulti senza il lampo dell’ambizione che sbriciola gli ideali. Questo ho pensato riunendo per tre giorni in un ostello di Como una ventina tra laureati, ricercatori e studenti. Studenti pochi. Volevo soprattutto riunire miei ex allievi trentenni. Per sapere che uso stiano facendo -oggi, nel lavoro- di quei corsi sulla criminalità organizzata che li appassionavano in università. Che rapporto ci sia tra le tesi di laurea e la funzione sociale. E per rinnovare la nostra comunità scientifica studiando insieme quel formidabile distretto di reti mafiose che, stando alle indagini degli ultimi anni, si è costituito, sotterraneo quanto intenso, nella provincia di Como.

Me li riguardavo tutti durante questa speciale università itinerante. Cambiati in certi lineamenti ma non nell’espressione. Con acerbe biografie alle spalle, qualcuno con cenni di fili ingrigiti, ma ancora vogliosi di imparare, di “esserci”. Da tempo mi chiedo che cosa faranno nella vita i giovani che studiano queste materie. Ora iniziano le risposte. C’è chi lavora all’antiriciclaggio in una grande banca ed è di riferimento per i colleghi, “è lei che sa bene queste cose”. C’è chi fa il sottufficiale nelle forze dell’ordine, l’unico di centinaia di nuovi marescialli che abbia chiesto la Calabria tra i non calabresi. Chi si accinge a partecipare a uno speciale concorso che lo porti nell’Arma corrosa dalle polemiche come ufficiale leale e analista raffinato. Chi ha appena vinto un importante concorso per dirigente in un grande Comune dove si occuperà di anticorruzione.
Chi fa la giornalista di battaglia, umile e studiosissima, per un grande quotidiano. Chi ha un ruolo burocratico fondamentale in una importante commissione antimafia regionale. Chi primeggia in assoluto nei suoi temi tra i ricercatori universitari, con tutti i segni di riconoscimento della futura intellettuale. Chi ha rinunciato alla vita accademica per un posto di responsabilità nell’accoglienza dei migranti in una grande città del Nord.

E c’è anche la ragazza più giovane, volontaria da quattro anni in un celebre bene confiscato lombardo. O l’altra studentessa che ha contestato in aula il suo docente di diritto penitenziario che a lezione si doleva del 41 bis per Totò Riina, privato di ogni diritto “anche se non costituiva più un pericolo attuale” (“scusi, ma lo sa che dal 41 bis ha ordinato l’assassinio del sostituto procuratore Di Matteo?”).
Vederli commuove e smuove. Anche quando prendono l’aperitivo. Anche quando cantano. Allora è possibile, pensi. Allora è possibile immettere gradualmente nella nostra società gli antidoti necessari. Nei mestieri e nelle professioni di tutti i giorni. Ci siamo detti con loro che basta un corrotto, una “talpa”, un dipendente infedele ai livelli più bassi per rovinare un ambiente intero, ma che basta una persona virtuosa per fare il contrario, produrre fatti, trasmettere culture.

Li ho sentiti parlare, nelle sere, dei loro desideri, ragionare con precisione di linguaggio, evocare le “Lezioni americane” di Calvino. Ho sentito il suono della giustizia in quell’età in cui in molti, anche nel cosiddetto “terzo settore”, iniziano a sgomitare da mercenari delle idee. E ho sentito che quell’aria da “Grande freddo” era splendidamente insolita. Il passato comune come punto di partenza, certo. Solo che il pensiero andava al futuro. Dall’università degli Studi di Milano verso i tanti luoghi d’Italia per cambiarla. Tutti convinti che basti un maresciallo a libro paga o un infermiere affiliato ai clan per sfregiare la vita quotidiana. Ma anche che bastino un funzionario anticorruzione o un impiegato antiriciclaggio onesti e competenti per renderla più civile. Scoperte da niente. Scoperte da rivoluzione.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 3.8.20)

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