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Storia del Garante che si cambiò il nome. A proposito di detenuti
Capitolo 1 della Storia. Mio articolo su Il Fatto Quotidiano del 7.9.20
Ma benedetti figli, non ce l’hanno un linguista? Non dico un Tullio De Mauro, ma una persona di buon senso che conosca l’italiano? Mi riferisco a chi in parlamento, nei ministeri o altrove maneggia con straordinario sprezzo del ridicolo la nostra lingua per sfornare leggi e norme. Stavo giusto meditando su quale persona o situazione scegliere per queste “Storie italiane” quando un telegiornale della sera ha rivoluzionato tutto.
Parlando dello scandalo primaverile delle cinquecento scarcerazioni in massa di boss e trafficanti (nella foto un’immagine della sommossa nelle carceri dello scorso marzo), il notiziario ha nominato un “Garante delle persone private della libertà”. Che una volta era prima di tutto garante dei detenuti. I quali, a quanto pare, annoverano ora tra i loro diritti quello di non essere più chiamati tali. Una nuova, classica operazione di travestimento semantico. A volta queste operazioni hanno un senso, come quando la domestica è diventata “collaboratrice domestica”. Altre volte sono ridicole, come quando il netturbino (già diverso dallo spazzino) sarebbe dovuto diventare operatore ecologico. Altre volte sono tragicomiche, come in questo caso. Che cosa vuole dire “persone private della libertà”? Si rendono conto gli sprovveduti di quel che scrivono? Purtroppo non c’è più un Calvino che deplori, quando arriva, “la peste del linguaggio”.
Ma qui la peste del politicamente corretto colpisce davvero senza pietà. Perché a essere privati della libertà non ci sono solo i detenuti, che ogni persona assennata continuerà a chiamare tecnicamente, e senza intenti offensivi, “detenuti”. Ma ci sono altre numerose schiere di persone. Per esempio le donne -mogli, fidanzate e figlie- degli uomini di mafia. Ne stiamo leggendo ormai una quantità di storie raccapriccianti. Vere forme di schiavitù, rispetto alle quali la libertà di azione e di parola di un detenuto diventa quasi un miraggio. Oppure ci sono i testimoni di giustizia, anch’essi privati della loro libertà e in più, spesso, anche del nome. Sono di fatto dei “fine pena mai”, perché non ci sarà mai un medico o un giudice, per quanto corrotto o codardo, capace di restituirli a vita libera. E di quale libertà godono poi i minori che si affastellano negli opifici cinesi, tra il posto di lavoro e la branda, senza poterne uscire per anni? E ancora, ma si potrebbe continuare a lungo: di che libertà godono le giovani prostitute vittime di tratta a sedici, diciassette anni, tenute come bestie-bancomat dalle organizzazioni che le sfruttano? E infine, pietra di paragone massima: e gli ostaggi dei sequestri di persona?
Se le parole hanno un senso il Garante delle “persone private della libertà” deve occuparsi anche di tutti costoro, deve scovare i luoghi in cui i loro diritti vengono conculcati e poi difenderne la domanda di giustizia, trattandosi per di più non di “presunti colpevoli” ma di esseri certamente innocenti. Anzi: da che parte starà questa figura mitologica di garante, dovesse mai essere chiamata a scegliere tra i diritti di questi innocenti “privati della libertà” e quelli di chi, avendogliela tolta, incorresse poi nella punizione dello Stato? Quesito interessante e imbarazzante. Già immagino qualcuno sorridere, con aria di superiorità. “Ma il garante mica deve pensare a tutte queste persone. Pensa ai diritti dei detenuti”. Appunto, e torniamo al punto di partenza. Se alla parola conseguono i fatti, tutto cambia (e forse non sarebbe male, visto che le categorie di cui abbiamo parlato sono totalmente indifese). Se le parole sono invece maquillage che toglie a una società i suoi significati, siamo alla truffa, o alla barzelletta. E significa che c’è il Covid ma c’è anche la peste del linguaggio. E a proposito. Quello che viene giustamente invocato è il distanziamento “fisico”. Contro le distanze sociali è da più di due secoli che ci battiamo. Ribadisco: dategli un linguista.
Capitolo 2 della Storia. Il Garante Mauro Palma risponde (sempre su Il Fatto Quotidiano).
Stupore e disappunto. Queste le reazioni di Nando Dalla Chiesa quando scopre – con quasi cinque anni di ritardo – che il Garante nazionale si chiama Garante dei diritti delle persone private della libertà e non come preferirebbe lui Garante dei detenuti. Lo stupore si trasforma in una rivendicazione linguistica e sociale. Vengono scomodati Tullio De Mauro e Italo Calvino, i netturbini e le collaboratrici domestiche. E vengono evocati in un curioso melting pot gli ergastolani (chiamati ‘fine pena mai’ con un classico travestimento semantico che tanto aborre), le mogli degli uomini di mafia, i testimoni di giustizia, i bambini schiavi, le prostitute minorenni, gli ostaggi vittime dei sequestri. Se il Garante è delle persone private della libertà, è la conclusione del sociologo, si deve occupare anche di loro.
Tra tanto stupore, ciò che stupisce davvero è la non conoscenza da parte dell’autore della definizione di privazione della libertà data dalle Nazioni Unite nel 2002, intesa come «ogni forma di detenzione o imprigionamento o collocazione di una persona in un luogo sotto custodia che non le sia consentito lasciare volontariamente, su ordine di un’autorità giudiziaria, amministrativa o di altro tipo» (Protocollo opzionale delle Nazioni Unite alla Convenzione per la prevenzione della tortura del 2002, ratificato dall’Italia nel 2012, articolo 4 comma 2).
È a questo che fa riferimento il nome del Garante nazionale. Non solo, quindi, ai detenuti. Anzi – come è noto ai più – l’area penale è solo uno dei quattro ambiti di intervento dell’Autorità di garanzia. Ci sono anche l’area dei migranti, con particolare riferimento ai Centri di permanenza per i rimpatri, agli hotspot e ai rimpatri forzati; l’area delle Forze di Polizia, con le camere di sicurezza e i locali ai posti di frontiera; l’area della salute, in particolare relativamente ai trattamenti sanitari obbligatori e alle strutture residenziali per persone con disabilità o anziane, come è emerso con evidenza in questo tempo di Covid.
Nessun travestimento semantico, dunque, e nessuna peste del linguaggio. Solo un termine per fare chiarezza, solo parole a cui conseguono fatti. Perché il carcere e i detenuti sono solo una parte di un tutto più vasto. Quello, appunto della privazione della libertà. Più che un linguista, forse serve un giurista.
Capitolo 3 della Storia. La mia brevissima replica al Garante.
Molte cose non so di diritto. Ma so per certo che cosa scrive oggi il sito del Ministero della Giustizia: “Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. Prima missione dichiarata: vigilare sull’esecuzione penale (non uno dei tanti ambiti, dunque). Il medesimo garante (persona stimabilissima) si attribuisce invece un’altra definizione, ossia “Garante delle persone private della libertà personale”, liberandosi della parola proibita. Così la lingua si distacca dalla realtà (anche giuridica) e semina, come spesso accade in questi casi, confusione nel vocabolario e nel buon senso.
Nando
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