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Se l’Europa si occupa di vittime. Il silenzio dei giuristi
Domenica mattina, colline torinesi. Nelle sale dell’Oasi di Cavoretto è riunita la direzione di Libera. Molti i punti messi all’ordine del giorno da don Luigi Ciotti. Parlando di giustizia il discorso va sulle scarcerazioni di massa di marzo. Poi prende la parola Daniela Marcone (in foto con don Luigi Ciotti), responsabile della memoria e del sostegno dei familiari delle vittime. Daniela è figlia di Francesco Marcone, direttore dell’’ufficio del Registro di Foggia, ucciso il 31 marzo del 1995 perché ostacolava la mafia del mattone. Lei, oggi funzionario del Ministero delle Finanze, non ha ancora avuto verità per quel delitto di 25 anni fa. Accompagna visibilmente con il corpo la fatica delle parole, tradita dalla luce che arriva dalla grande porta-finestra alla sua sinistra. Poi il discorso prende scioltezza e lucidità, fino a diventare un siluro contro la cultura montata sempre più velocemente, quasi ossessivamente, in questi anni. Nessuno tocchi Caino, sembra dire, ma c’è un mondo che chiede rispetto e giustizia e verità per quello che Caino gli ha fatto.
Caino lo nomino io, non lei. Ma non per questo è meno chiara. “Diciamolo ancora, il processo penale è tutto pensato in funzione del reo o presunto reo, è solo a lui che si guarda quando bisogna difendere o alzare le garanzie”. E’ un sistema da rivoluzionare, spiega. Conosco Daniela. Ha una diffidenza naturale per quell’espressione disperata e a volta semplicemente reazionaria, “buttare via la chiave”. Nulla di più estraneo alla sua cultura. Ma il suo è un fiotto di verità in un clima nutrito in questi anni di equivoci e di arroganze, di “torture” subite dai boss mafiosi, di “costrizioni vendicative” ai danni di chi vorrebbe i domiciliari perché, pensa un po’, “incompatibile con il carcere”.
Si pensa, insiste, che il giusto processo assicuri già alla vittima tutti i diritti. Ma non è affatto vero, non c’è alcuna parità con il reo. La vittima può costituirsi parte civile solo per chiedere il risarcimento dei danni, ossia per ragioni economiche, non morali, non per bisogno di verità. “Si parla solo di benefici della vittima, ma non ci si riferisce ai suoi diritti. Mi sapete dire, incalza, perché ad esempio viene regolarmente ignorata la direttiva dell’Unione Europea, la numero 29 del 2012, che stabilisce le norme minime in materia di diritti di assistenza e di protezione delle vittime dei reati? Riguarda tutte le categorie di vittime.”
Ci guardiamo in faccia. In effetti nessuno di noi sa nulla di quella direttiva. In Italia i giuristi da accademia e da tribunale richiamano in serie le norme europee in difesa dei rei, e talora le manomettono fidando nell’ignoranza altrui. Questa mai. Che cosa dice dunque la direttiva? “Stabilisce che sin dal momento in cui si è verificato l’atto che la colpisce, sin dal primo contatto con l’autorità pubblica, la vittima deve essere edotta dei suoi diritti, tra cui, se lo chiede, quello di essere informata senza ritardo dell’archiviazione del procedimento che la riguarda, o anche della scarcerazione di chi è stato condannato per il reato da lei subito. Ebbene”, continua Daniela, “lo sapete che situazione c’è in Italia? Nessuno ti avvisa. E a volte sapere in tempo di una richiesta di archiviazione ti dà la possibilità di opporti e di fare sorgere dubbi nel giudice delle indagini preliminari. Con me il gip stilò una cinquantina di punti di indagini da approfondire”.
La ascolto inquieto. Benché conosca bene le condizioni di debolezza delle vittime, specie se prive di risorse economiche o di notorietà, penso che c’è davvero qualcosa di strano se, con il numero di giuristi senza pari che opera in questo paese, non si parla mai in televisione o sui giornali o nelle aule di questi diritti delle vittime. Diritti anch’essi. Europei anch’essi. Importanti anch’essi. Solo, in favore degli innocenti. C’è del marcio in Danimarca.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 21.9.20)
Nando
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