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Te la do io la mascherina. Ovvero non sparate sulla scuola (ma solo su alcuni)
Animo. Nonostante tutto le belle notizie ci sono. E arrivano, pensate un po’, anche dal mondo della scuola. Lo stesso che ha avuto contro tutti i fucili puntati, e ancora ce li ha. Un po’ come se dopo la guerra gli italiani, invece di essere contenti del ritorno dei loro figli a scuola, avessero incominciato a lamentarsi dei supplenti che mancavano, di quella scuola ancora ingombra di macerie, o della pioggia che filtrava dall’ardesia di una scuola di montagna. Con articoli e foto della serie “povera Italia”. Perciò vi parlerò di un istituto comprensivo (materna, elementare e media) della città di Milano. Dove per quasi tutta l’estate una direttrice amministrativa e i suoi collaboratori si sono impegnati per fare ritrovare ai bambini una scuola funzionante. Volevano che all’inizio del nuovo anno si celebrasse quasi una festa della riapertura. Il famoso personale tecnico-amministrativo, quello con la nomea di più alto tasso di sindacalismo “non possumus”, si è rimboccato le maniche al gran completo e ha lavorato sodo. Ha apposto i nastri adesivi ovunque, per segnare con le classiche frecce i percorsi necessari a distanziare (“fisicamente”, non “socialmente”) gli alunni e le varie figure in procinto di affollarsi tra le mura scolastiche. Ha piazzato le colonnine dei disinfettanti, ha spostato banchi e realizzato traslochi interni, senza verificare se ciò fosse previsto o meno dai rispettivi mansionari.
Mancavano però, per riaprire in sicurezza, una serie di garanzie. Ognuna con il suo costo: le mascherine, i termometri a distanza (i più costosi) e altri dispositivi di protezione individuale. Tutte cose che notoriamente tardavano ad arrivare dal ministero. Ma dall’istituto di cui mi è stato chiesto di non fare il nome nessuno ha incominciato a fare telefonate ai giornali per dire che “Roma non ci manda” o che “siamo allo sbando”; e nessun impiegato ha girato video per dimostrare in che condizioni è finita la scuola italiana “con questo ministro col rossetto”. Anzi, tra le ragioni del servizio pubblico e quelle della ragioneria algida e irreprensibile hanno scelto le prime. Hanno prelevato i fondi d’istituto e con 20mila euro hanno comprato in tempo tutto il necessario. Giusto un paio di giorni per felicitarsi reciprocamente e cinque insegnanti hanno fatto domanda di continuare a lavorare a distanza. La direttrice ha inutilmente provato ad accennare alle difficoltà che ne sarebbero derivate. E di fronte al diniego ha chiesto i certificati medici. Che prontamente tre degli obiettori hanno esibito. Due dei quali accolti nell’istituto con la formula “in utilizzo”, che vuol dire impiegati lì invece che nella loro scuola di appartenenza (in genere con netto giovamento logistico dell’interessato). Ravvisando una contraddizione tra il beneficio materiale e la “diserzione” morale, la direttrice amministrativa ha revocato l’utilizzo. E per riempire le cattedre vuote ha scelto tra gli ultimi supplenti.
Che devo dire? Che questa mi sembra una gran bella notizia. Una lezione di moralità civica. Pensate: una scuola che non invoca Roma, che si getta nella sua missione, che lancia il cuore oltre le follie di un Tar sempre in agguato, che mette al primo posto il merito. A cui si aggiunge una notizia che spariglia convinzioni e convenzioni: ossia che tra tutti questi protagonisti c’è una donna calabrese. Non l’insegnante che si dà malata, non quella che si appellerà al Tar, ma la direttrice amministrativa. Colei che, con i suoi collaboratori, manda al diavolo assistenzialismo, mansionari e cavilli e impone la linea del servizio pubblico. Oltre ai tanti ‘ndranghetisti che vorrebbero mangiarselo, il Nord ha anche questi tesori che vengono dalla Calabria. Invece di dare spazio ai vittimismi dei cialtroni occorrerebbe far conoscere queste persone. Peccato solo che stavolta non ve ne possa fare il nome.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 21.9.20)
Nando
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