Pietro Nava e l’omicidio Livatino. Storia di un testimone senza “garanti”

Leggo, vedo, e penso che a volte gli anniversari servono. A scuotere la memoria. A riportarci alla realtà per la collottola. E’ stato il caso dei trent’anni dall’assassinio del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 sulla strada da Canicattì per Agrigento (nella foto il racconto del giudice in un libro per bambini). Provvidenziali per averci restituito una vicenda esemplare della nostra Repubblica tenuta a lungo fuori dai riflettori, e che abbiamo potuto ripassare grazie a un commovente speciale Tg1 di Maria Grazia Mazzola, ricco di informazioni inedite e perciò andato in onda verso mezzanotte. Per avere registrato l’intervento appassionato del presidente Mattarella, con il monito a ricordare, di questi tempi, quale debba essere l’etica di un magistrato. Ma anche e starei per dire soprattutto per averci rimesso faccia a faccia con la storia di Pietro Nava, l’agente di commercio venuto da Lecco, che vide il delitto dallo specchietto retrovisore e invece di proseguire nella sua corsa, magari con la vergogna nel cuore, scelse di presentarsi alle forze dell’ordine a testimoniare. Tra una folla di Ponzio Pilato sentì lui, anonimo cittadino, il dovere civile di contribuire alla ricerca della verità in una terra in cui erano stati ammazzati senza pietà e senza paura tutti i vertici dello Stato.

Pietro Nava ci è ricomparso attraverso un’intervista rilasciata per il “Corriere” a Felice Cavallaro che mi ha risvegliato dentro, tutte insieme, decine di storie italiane unite da un filo sottile o robusto. Mi ha suscitato in particolare un senso di colpa per essermi limitato a scrivere, ventotto anni fa, la storia di quel “giudice ragazzino” e non essermi mai dato da fare per questo commerciante sconosciuto che con la sua testimonianza ha rischiato infinitamente più di tanti antimafiosi impegnati (tra i quali mi metto). Che vita avrà fatto in questi trent’anni Pietro Nava? Come lo ha assistito lo Stato italiano? Che bilancio fa della sua scelta di allora? L’interessato lo ha raccontato in un libro di cui per ora so quel che è accennato nell’intervista. Ma fondamentalmente ha detto che lo rifarebbe, che è stato ben protetto da uomini di alta umanità e professionalità, capaci anche di giocare con i suoi ragazzi.

Ha raccontato l’orgoglio della moglie (che sia benedetta) e la difficoltà assurda, resistente, di assicurarle la reversibilità della pensione, dovesse mai succedergli qualcosa. Ma ha aggiunto anche che ha vissuto e che vive come un prigioniero. Così io ho pensato d’istinto che appartiene in fondo, e a maggior ragione, al variegato mondo di quegli uomini “privati della libertà” in forza di atti amministrativi e giudiziari di cui in Italia vengono difesi i diritti attraverso una piramide di ruoli e di funzioni di “garanzia”, dai singoli comuni fino al livello nazionale. Certo Nava non subisce intenti punitivi, e nel suo caso la “privazione della libertà” nasce all’opposto dal riconoscimento di un comportamento virtuoso da tutelare da eventuali rappresaglie. E’ un’altra cosa, insomma.

Ma è proprio questo che giunge (o dovrebbe giungere) come interrogativo scomodo e urticante. Per quale motivo, infatti, non vi è nel nostro sistema una analoga struttura di garanzia per i diritti dei testimoni di giustizia o delle vittime dei reati? Perché la società italiana, e al suo interno la cultura giuridica più fine, non sente alcuna spinta per questa missione civilissima, forse la più civile di tutte? Perché i Piero Nava non hanno alle spalle figure istituzionali, un movimento di opinione che vigili sui loro diritti, ad esempio su quella pensione di reversibilità che mille ragioni giustificherebbero? Lo rifarebbe?, gli ha chiesto Cavallaro. Ha risposto di sì. E noi lo rilasceremmo solo? Temo che nella realtà diremmo di sì anche noi. A meno che un giorno, nei fatti, questo paese non prenda a cuore anche i diritti dei “certamente innocenti”.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 28.9.20)

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