Nuovi linguaggi Trenitalia: “persone non autorizzate lungo la linea”

“Sì, viaggiare”. Fu una canzone di successo di Lucio Battisti. Che mi soccorre durante le mie peregrinazioni aeree o ferroviarie. Delle quali di questi tempi ho nostalgia. Salvo ricapitarci dentro, come venerdì scorso. Mezza giornata di treno da incubo. Intendiamoci, Trenitalia rispetta i criteri di sicurezza molto più di quanto abbia fatto Alitalia alla fine dell’estate, quando ci ammassò a migliaia uno accanto all’altro tra perfetti sconosciuti, a venti centimetri di distanza. E quindi parto da questo riconoscimento. E aggiungo pure che un guasto eccezionale alle linee ci può stare. Ma il venerdì nero mi ha fatto riflettere sul rapporto fra Trenitalia e la lingua, intesa come linguaggio della comunicazione. Quasi un viaggio, intrecciato e parallelo a quello principale, nelle nostre ipocrisie ed evanescenze culturali. Già alla partenza quel messaggio che si ripete sui marciapiedi: “Rispettare la distanza sociale”. Certo, ne siamo martellati da mesi. Ma lì davanti al treno che diavolo vuol dire? Forse che chi ha preso il biglietto di seconda non deve permettersi di assidersi tra i benestanti della business class? O che se entra per qualsiasi motivo nelle classi superiori deve guardarsi intorno con area deferente e togliersi il cappello? Perché piace tanto questa “distanza sociale”, quando si tratta con ogni evidenza di distanza fisica?
Poi si parte. A un certo punto si avverte il rallentamento del treno detto “freccia”.

I clienti borbottano impazienti. E qui va in onda il capolavoro affabulatorio. Perché da qualche anno Trenitalia ha inserito nel suo repertorio una strepitosa-supercazzola. L’altoparlante comunica che il ritardo è causato dalla “presenza di persone non autorizzate lungo la linea”. Allora i passeggeri fanno a gara a indovinare di chi si tratti, scatenandosi a raccontare in diretta al cellulare (anche nell’area silenzio, ovviamente) l’avventura equatoriale che stanno vivendo. Ma chi saranno mai “queste persone non autorizzate lungo la linea” che tornano all’attacco ogni settimana nei punti più diversi della nazione? E’ un blocco ferroviario, ipotizza qualcuno. Ma perché non dirlo, e non dire “dove”, giusto perché lo si possa sapere e magari verificare? Chi saranno queste persone non autorizzate che si muovono dispettosamente e pericolosamente lungo la linea? Forse ladri diurni con la pila in mano? Monelli che si danno convegno per fare maramao al treno? Cercatori di funghi? Manifestanti solitari? Immigrati pronti a saltare sul treno?

Nessuno lo comunica, rispetto della privacy. I passeggeri si interrogano diffidenti. Specie chi alla formula magica ci ha fatto l’abitudine. Qualcuno impreca credulone, chiedendo il filo spinato. Mentre il sottoscritto, che viaggia da una vita, si interroga: ma perché prima non accadeva mai? E gli sovviene di quando si usava dire che c’era stato un incidente (un suicidio, si lasciava intendere senza dirlo) ed erano in corso gli “accertamenti dell’autorità giudiziaria”. Un po’ troppe volte, per essere vero. Un giorno sentii dare a Bologna una spiegazione spudorata: il treno aveva subito un blocco a una stazione più a sud per la quale ero passato con assoluta tranquillità.

Dopo un po’ la lingua cambia ancora. Ed è quando il ritardo va verso l’ora (sarà di due ore su un viaggio di tre). Allora scompaiono le “persone non autorizzate”, messe in fuga dall’odor di surreale, e viene fuori la verità indicibile: “un guasto alla linea”. Un guasto “momentaneo”, naturalmente. La lingua, sempre lei. Come se esistessero i guasti eterni. Il “momento” dura ore, il treno viene dirottato. E’ il progresso, bellezza. Una volta per intortare il povero Renzo c’era il latinorum di don Abbondio. Ora ci sono le persone non autorizzate e i guasti momentanei. Quando la gente sa l’alfabeto ci vuole la supercazzola. Rispettosa della privacy, ci mancherebbe.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 19.10.20)

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