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Peppino Alberganti, il comunista di un secolo fa, forse due
Insisto. Con il lockdown le storie italiane ti arrivano direttamente in casa. Perfino quelle che profumano di ottocento. Come l’autobiografia giuntami via posta tre-quattro giorni fa e che inizia così: “Dai miei nonni materni, la storia della mia famiglia è strettamente legata alla storia del movimento operaio da quattro generazioni. Generazioni che hanno lottato molto e mangiato poco”. Scritta più di 40 anni fa. Mi sono subito domandato chi oggi potrebbe scrivere della propria famiglia la stessa cosa. Lottato molto è possibile. Mangiato poco pure. Ma le due cose insieme sono nelle storie italiane di oggi abbastanza rare. Mentre erano tante a fine ottocento, quando nacque l’io narrante di questo breve libro, Autobiografia di un sovversivo (1898-1923), Giuseppe Alberganti.
Figlio di una famiglia socialista di Stradella, provincia di Pavia, il giovane Alberganti si gettò con passione nelle lotte operaie che stavano forgiando il partito comunista. E nel partito conquistò da subito ruoli di responsabilità. Incarcerato dal Tribunale speciale, esule in Francia, combattente in Spagna, confinato a Ventotene, partigiano con nome di battaglia Cristallo, alla testa dell’insurrezione antifascista in Emilia e a Milano, segretario della Camera del lavoro di Milano e segretario provinciale milanese del Pci fino al ’58, senatore e deputato, questo rivoluzionario di cui è sfumata la memoria si avvicinò al movimento studentesco della Statale, che lo accolse come simbolo di un comunismo intransigente nei principi ma aperto ai nuovi protagonisti giovanili della scena politica (in foto un comizio in piazza Duomo con il Movimento Studentesco).
Una storia lunga, complessa. Giuseppe Alberganti, detto “Peppino”, fu eletto presidente del Movimento lavoratori per il socialismo, nato dal movimento studentesco. Morì una notte del ’79, appena tornato a Milano da un seminario tenuto a Riccione per suggellare la fusione del suo movimento con il Partito di unità proletaria, promessa di una nuova sinistra che si sarebbe insabbiata in un pugno di anni.
L’autobiografia parla a chi abbia passione per la storia. Ed è una inesauribile seminatrice di immagini di vita collettiva. Più di un amarcord. Il “che cosa” più del “come”. Intenerisce leggere che due suoi fratelli si chiamavano Comunardo e Umano, e una sorella Avvenire. Stupisce dolorosamente che la sua famiglia materna (Ravazzoli) abbia partecipato alla decisione di espellere dal Pci lo zio Paolo, e che votò contro solo la nonna. Si freme di indignazione nel ripassare la condizione delle mondine, nelle quali la madre di Giuseppe veniva arruolata 40 giorni all’anno. E provi comunque meraviglia e rispetto davanti a una storia così, che arriva letteralmente da un altro mondo, anche se il protagonista l’hai conosciuto nella tua giovinezza, ossia l’altro ieri. Così si è presi da gratitudine verso chi, avendo ricevuto nelle proprie mani questa breve autobiografia, inchiodata al 1923, ha deciso comunque di consegnarla al pubblico. Non per soldi o gentili encomi, ma solo per responsabilità verso chi da quarant’anni non c’è più e quelle memorie gliele aveva pur lasciate.
Perché è giusto raccontare, senza assecondare l’onda ingenerosa della storia, che scarta chi non è stato vincitore e nemmeno è caduto da eroe. Massimo Bianchi, giornalista, allora militante poco più che ventenne a cui l’Alberganti ottantenne aveva lasciato una cartella con 68 fogli scritti con la grafia inclinata, si è fatto scrupolo di trarla fuori dal cassetto. Non perché il comunista degli anni di ferro fosse il suo verbo ma semplicemente per rispetto. Perché la solidarietà tiene insieme i bisogni, i diritti, ma anche le generazioni. Quelle che vengono prima, con il loro dovere di non trasmettere debiti, crimini e strazi ambientali; quelle che vengono dopo, con il loro dovere di serbare la memoria e il senso delle vite. Specie se sono state spese per gli altri.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 16.11.20)
Nando
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