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Quei giurati popolari che hanno fatto la storia. Rivedendo il maxiprocesso
Che Dio le benedica. E il popolo italiano pure. Ecco qui i nomi: Teresa Cermiglia, Maddalena Cucchiara e Francesca Vitale (in foto). Sono le tre donne che accettarono di fare i giurati popolari al maxiprocesso di Palermo e che il bellissimo docufilm della Rai di giovedì scorso ci ha consentito di conoscere dal vivo. Con altre donne e altri uomini fecero una scelta di civiltà, intrisa di orgoglio e di coraggio, che consentì di giungere a una sentenza storica. Il docufilm ce ne ha raccontato i dubbi, gli stupori e poi la crescente determinazione a proseguire fino in fondo. La scoperta del pianeta mafioso attraverso le testimonianze giunte dall’interno, fino a inorridirne. Il duro confronto, fuori dalla famosa aula bunker, con un ambiente che si era abituato nei secoli a consegnare ai boss anima e cervello. E la vita sotto scorta, le tensioni familiari.
Personalmente ho sempre sostenuto che il maxiprocesso sia stato prima ancora che un grandioso evento giudiziario un grandioso evento culturale. Un duro rovesciamento delle coscienze. E “Io, una giudice popolare al maxiprocesso” lo ha confermato. In fondo la storia del nostro paese è passata ripetutamente per piccoli gruppi di giurati popolari. Non solo contro la mafia ma anche contro il terrorismo, quando al celebre processo alle Brigate rosse di Torino non si trovavano abbastanza cittadini disposti ad accettare e si fece avanti, volontaria, l’esponente del partito radicale Adelaide Aglietta. Donne e uomini anonimi che siamo abituati a vedere sedere accanto ai giudici di carriera come statuine, la fascia tricolore indossata con modestia e un accenno di fierezza. Abbiamo potuto capire meglio, la scorsa sera, che non sono statuine affatto, bensì cittadini che si caricano sulle spalle il peso della storia nazionale e le consentono di andare avanti.
E che quei giurati popolari palermitani fossero protagonisti, insieme con alcuni magistrati, di una rivoluzione culturale, lo abbiamo ben potuto misurare vedendo la scena reale in cui, con vibrante voce baritonale, un avvocato dei boss, giustamente voglioso di ben meritare davanti ai facoltosissimi clienti, prese a contestare il presidente della corte, Alfonso Giordano, indignato per le “vergogne” che costui stava perpetrando. Che spettacolo, quegli avvocati, che personaggi da trattato e da romanzo insieme. Con quel loro documento che chiedeva la ricusazione del presidente.
Arie del ventesimo secolo ormai dimenticate e che per fortuna ci sono state restituite proprio a ricordare la grandiosità del passaggio che si consumò. E che divise la stessa magistratura, se è vero che prima della accettazione della presidenza da parte del giudice Giordano (il quale, non dimentichiamolo, veniva dal civile) vi furono almeno cinque magistrati che rifiutarono il peso della storia. Loro, prestigiosi rappresentanti di un potere della Repubblica; mentre semplici cittadini decidevano di rappresentare e di far vincere, come ha detto uno di loro, “la Sicilia degli onesti”. Ci riuscirono. Poi, arrivò la Corte d’appello a smontare tutto. Una beffa per quei pezzi di vita generosa. Ma fu fortunatamente sconfessata dalla Cassazione, liberata della “dottrina Carnevale” grazie a Giovanni Falcone nel frattempo arrivato ai vertici del ministero della Giustizia.
Ebbene, fui chiamato a testimoniare a quel processo. Una testimonianza difficile (“non stiamo processando il generale dalla Chiesa” dovette urlare Giordano verso gli avvocati difensori) e ricordo bene quei giurati popolari, la loro attenzione rispettosa, che mi arrivava addosso muta, mentre sedevo davanti a loro cercando la giustizia che in buona parte mi sarebbe stata data. Non ho mai fissato i loro volti nella memoria, non ho mai chiesto i loro nomi né li ho mai incontrati. Oggi, dopo 34 anni, voglio da questo giornale ringraziarli per quel che fecero.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 7.12.20)
Nando
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