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In nome della legge in Calabria. Quando ci si sente (ingiustamente) soli
Lettera di un mio laureato andato a servire la legge in Calabria. “E’ da tempo che desideravo scriverle e non so neanche – causa le centinaia di studenti che segue e ha seguito – se si ricorda di me […]. Lavoro a ….. Credo di esserci arrivato con un po’ di presunzione, per le conoscenze, soprattutto accademiche, che avevo acquisito. In realtà (mi vergogno ad ammetterlo) sapevo ben poco sulla reale potenza della ‘ndrangheta, anche perché non avevo mai avuto un impatto empirico/lavorativo così forte e diretto. Qui la ‘ndrangheta si respira. È asfissiante, perché è un modo di pensare comune. Condiziona anche la mia di vita, perché non è possibile fidarsi di chi ci sta intorno.
E, pertanto, si ha una duplice sensazione di solitudine e impotenza, in quanto si è consapevoli che anche quando si arriva alla conclusione di una grossa indagine, o si ottiene una confisca, o si fa pulizia in un ufficio pubblico, in realtà si è fatto ben poco. Gran parte della gente civile ci odia se colpiamo quelle persone che garantiscono il lavoro e la sopravvivenza (e che comunque verranno presto rimpiazzate). Si combatte contro un sistema corrotto forse uguale da secoli, in grado di rigenerarsi, con personaggi diversi, ma sempre con gli stessi schemi. È addirittura difficile guardare al futuro con speranza, soprattutto per questa regione. Credo che la speranza sia avere quel modello di studenti che lei è riuscito […], moltiplicati per mille, diecimila, ma che qui stento a vedere. I tempi milanesi sembrano lontani anni luce e non le nascondo che sto ripensando le mie scelte. Mi scusi lo sfogo e se le cose scritte possano sembrarle retoriche”.
Caro Giuseppe (nome di fantasia), a parte che la ricordo perfettamente e che non c’è un’unghia di retorica in quel che scrive, mi perdoni se a sua insaputa riporto qui brani della sua lettera. Ma a me sembra un documento pubblico, bello e terribile. E spero che la mia risposta possa aiutare anche altri. L’aria di cui mi parla la conosco. Me l’hanno raccontata altri servitori dello Stato, anche di altissimo livello. E l’ho conosciuta in diretta. È vero: se un boss viene arrestato si trova intorno persone che vanno a inneggiare a lui o addirittura a baciargli le mani. Ma lei deve sempre pensare una cosa: che se cinquanta persone gli ostentano devozione, nelle case e nelle scuole ce n’è il doppio, il triplo, il quadruplo, che ne hanno ribrezzo e gioiscono per il suo arresto, temendo semmai che qualche giudice lo riconsegni integro al territorio. Lei lavorando per la legalità prepara il terreno al futuro, a quel ponte permanente tra l’Italia migliore e la Calabria migliore che è l’unico vero “ponte” di cui quella regione ha bisogno. Deve pensare che i suoi amici di università, sparsi in tutta Italia, sapendo la prova che sta affrontando si sentiranno orgogliosi di avere studiato con lei, almeno quanto lo sono io per averla laureata. E che saranno con lei i tanti cittadini ai quali vorrei giungere da questa pagina.
Deve sapere che è una tecnica degli ‘ndranghetisti quella di far sentire in minoranza l’Italia onesta: si affollano davanti all’arrestato, portano (portavano!) la processione a inchinarsi davanti al balcone del boss, telefonano in diretta sulle tivù private per contestare chi accusi il loro clan, querelano a nome di un intero paese chi osi denunciare le loro prodezze, si presentano nei tribunali (l’hanno fatto anche a Como!) a fischiare il pubblico ministero, specie se donna. Ma sono niente davanti all’autorità che funziona, davanti a una maestra che fa il suo dovere, a un prete che annuncia nei fatti il vangelo. Pensi alla Calabria onesta e stanca, che alla fine è maggioritaria. Pensi ai suoi compagni di studio, siete diversi ormai a svolgere funzioni pubbliche in Calabria, in ogni settore: cercatevi. Senta anche la nostra voce. E soprattutto la faccia sentire bene a chi vorrebbe vedervi isolati. Con ammirazione, il suo prof.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 21.12.20)
Nando
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