Quella scuola si scusi con Simona, l’infermiera coraggiosa

È il prezzo di una rubrica settimanale. Mi ero già ritagliato mentalmente la storia di cui parlare oggi e, zac, mi ha battuto sul tempo Radio1. Volevo essere il primo, con il “Fatto”, a raccontarvi la scelta esemplare e coraggiosa di un gruppetto di medici e infermieri di Lodi che dopo avere fronteggiato, in solitaria avanscoperta, il Covid maledetto nel febbraio del 2020, si sono oggi dati volontari per andare a combattere il nuovo Covid nell’Umbria rossa per lessico sanitario. Descrivemmo un anno fa la resistenza fai-da-te del gruppetto che all’ospedale di Codogno scoprì d’incanto la peste del Duemila e che tutto dovette inventare da solo in una notte per arginare il contagio. Così avevamo parlato di un’infermiera, Simona Ravera, che con alcuni suoi colleghi si era accollata 48 ore di lavoro consecutive, turni di pulizie compresi, per consentire a chi stava fuori dalla terapia intensiva di allestire le difese.

Metto dunque tra parentesi la notizia della nuova nobile avventura di gruppo (in foto) e vi racconto invece di questa donna che domenica 21 alle 7.42 del mattino avverte come niente gli amici che parte per l’Umbria, ospedale di Spoleto, terapia intensiva. “Starò via 28 giorni. La mia terra umbra chiama e ha bisogno, ed io rispondo facendo quello che posso, quello che so”. Rende onore alla sua piccola famiglia, spiegando che “mio marito e Bianca non mi hanno fatto ostruzione. Sono preoccupati per la situazione pandemica locale ma non c’è stata nessuna obiezione legata al funzionamento ordinario della casa, per esempio”. Ricorda la coincidenza dell’anno esatto prima, il giorno in cui deflagrò la prima notizia di Covid in Italia con la creazione della prima zona rossa. E senza astio si rammarica dei racconti diffusi in libertà su quei mesi, solo sperando “che un giorno si possa realizzare quel libro fatto dei racconti nostri”. Ho letto il suo messaggio con stupore.
E ho ripensato non solo a Codogno, ma anche a quanto questa donna ha cercato, respinta con perdite e perfino sbeffeggiata (“chiami pure i carabinieri”), di donare al liceo di Piacenza in cui era stata eletta rappresentante dei genitori. Ricordo le sue amarezze di fronte alla convinzione altrui che non ci siano procedure da osservare nella gestione di una scuola; che la richiesta di votazioni regolari per eleggere un consiglio di istituto sia frutto di una bizzarria individuale. Le ultime mi giunsero via mail dieci giorni prima della notte di Codogno. Rileggo: “sono arrivata anche a non mangiare, a prendere gocce per dormire, a trascurare la famiglia, a non avere più attimi sereni, a non godere più delle piccole cose, a maledirmi di aver messo il naso dentro un sistema che mi si è gattopardescamente palesato”.

Oggi l’Italia dice di averlo capito: la sanità e la scuola prima di tutto. Ebbene, sono stati esattamente i fronti di impegno totale di questa signora. Che con le sue scelte al servizio del pubblico ha dimostrato come, a dispetto dei luoghi comuni, reclamare i diritti non impedisca affatto di sacrificarsi ai doveri, pure quelli non scritti (“la mia terra umbra chiama…” dice lei perugina di origine). Per questo vorrei che oggi chi cercò di umiliarla perché esigeva legalità e trasparenza, la chiamasse e le dicesse: “Signora Ravera, mi scusi, non capivo, grazie per quello che sta facendo per tutti noi, in quanto scuola di sua figlia siamo orgogliosi di averla come nostro genitore”.
Così si farebbe in una scuola degna di questo nome. L’infermiera, intanto, si farà il suo volontariato nei luoghi del massimo rischio al servizio di persone sconosciute. Commossa -già lo è- per la riconoscenza dei nuovi colleghi. E sia chiaro: non c’è nulla di deamicisiano in questa storia. C’è solo l’antica lotta tra l’I care e il chi te lo fa fare. In genere vince il secondo. Ma in tempi di tragedie vince il primo. Per k.o., senza ritorno.

(scritto su Il Fatto Quotidiano dell’1.3.21)

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