La ragazza di Vicolo Pandolfini

Questa intervista, a firma Candida Morvillo, è uscita il 30 maggio scorso sul “Corriere.it”. E’ la versione integrale dell’intervista uscita lo stesso giorno sul quotidiano cartaceo.

Due settimane fa, in quest’appartamento milanese anni ’70 zeppo di libri, il seggiolone della nipotina in salotto, con Nando Dalla Chiesa, viveva ancora Emilia.

Oggi, c’è lui da solo, per la prima volta dopo 50 anni d’amore, polo e giacca, composto come sempre, se non fosse per gli occhi che non sono più quelli. Quelli saettanti dei mille comizi per la legalità, delle invettive contro le mafie. Non c’è parola per descriverli, finché lui non dice: «Quando mi hanno detto che Emilia doveva usare il deambulatore, mi si sono inceneriti gli occhi». E poi, invece, peggio ancora, lei aveva sussurrato «finirò a letto» e così è stato: «Aveva capito tutto prima di noi, anche che sarebbe morta». Aveva solo 68 anni. Di lei, in questa stanza, restano le foto in bianco e nero di una ragazza bellissima dal sorriso contagioso e, appesa sul letto dove se n’è andata, una foto enorme di loro due, ventenni, che si baciano. Lui ci ha scritto su, con lo spray, «Emù sei la prima»: «Le dicevo così, perché “sei unica” non ha valore: se ci sei solo tu, che confronto è?».

Il 20 maggio, su Facebook, il professore sempre sobrio, asciutto, pacato, che dall’assassinio del padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ha consacrato la vita all’antimafia, ha scritto: «La ragazza di Vicolo Pandolfini, il luogo in cui ci giuravamo a Palermo amore eterno, se ne è andata. Provate qualche volta a riconoscerla in una stella. Potrebbe dirvi “sono io”, era uno dei suoi giochi preferiti».

Perché «la ragazza di Vicolo Pandolfini»?
«Domenica scorsa, mi ha chiamato Don Luigi Ciotti e mi ha detto: sono nel vicolo Pandolfini, ma è questo stretto? E io: certo, per questo ci andavamo, era piccolo, coperto di fogliame, non passava nessuno… Lì potevamo appartarci in una 600 bianca a parlare di futuro per ore e ore. Parlare di futuro era parlare d’amore».

Come l’aveva conosciuta?
«Era il 1970, era compagna di banco di mia sorella Simona. Io facevo l’università a Milano. Un’estate, tornai e, in discoteca, vidi una biondina che ballava benissimo, allegra, leggiadra. Pensai: ma guarda che bella. Simona mi disse: è Emilia Cestelli. E io: ma come? La mattina alle sette, ero già sveglio in cucina, dissi a mia madre: mi sono innamorato. Non avevamo mai parlato di queste cose. Pensi quanto era potente quel sentimento. Chiese chi era, glielo dissi. Mi rispose: hai fatto bene. Lei e papà la conoscevano, era sempre a casa, è stata la loro quarta figlia. Poi, chiesi a mia sorella di farle sapere che l’amavo».

Una cosa così all’antica fatta da un ragazzo del ‘68?
«Era il 17 agosto, mi rispose il 26. La domanda a cui doveva rispondere era se voleva stare con me. Per conquistarla, Simona mi aveva consigliato di non dirle che era bella, come tutti, ma di andare su altro. Non fu difficile: amavo la sua intelligenza ironica, la sua leggerezza. Avevo ragione: è sempre stata acuta, divertente, sapeva prendere in giro senza esagerare e non è mai stata opprimente, nonostante le mie lontananze continue».

Il suo post ha raccolto 3.400 commenti in poche ore. Molti di persone che vi avevano solo intravisto da qualche parte ed erano rimasti colpiti da quanto sembravate innamorati.
«La nostra prima baby sitter mi ha detto: mi ricordo sempre di voi mano nella mano. Ed era vero».

Sua sorella Rita ha scritto che, due anni fa, vi sorprese al mare, al tramonto, abbracciati, e che avete vissuto sempre abbracciati.
«Non era solo un contatto fisico, era molto di più: ne abbiamo passate tante. Abbiamo avuto un destino unico, così forte, e lei c’è stata in modo meraviglioso, aiutandomi a fare tante cose difficili. Lo vede questo anello? Lo portava mio padre quando fu ucciso. Lo lavò lei, per evitare di sentirmi sciogliere il sangue di papà fra le mani».

In quel settembre 1982, Emilia era anche incinta.
«Sono cose che legano tantissimo. È stata dentro questo mio cammino duro senza mai tirarsi indietro. Era incinta di Dora al funerale di papà e incinta di Carlo a quello di mamma, morta d’infarto nel ’78, sotto il terrorismo. Non mi ha mai detto: che vita mi costringi a fare? La sua spensieratezza adolescenziale era finita dentro una storia gravida di rischi. Da questo balcone, quante volte, si affacciava per vedere se sotto era libero».

«Libero» da pericoli? Avete temuto per la vita?
«Durante il terrorismo, i compagni di movimento facevano le ronde sotto casa, quando entravo e quando uscivo. Da prof, non entravo mai all’università dallo stesso ingresso. Qualcuno andò anche a fotografare nostro figlio all’asilo. Papà si spaventò tantissimo. Tuttora, quando parlo in certi posti del Sud, i carabinieri fanno la guardia al mio hotel e in certi paesi dell’hinterland milanese, mi dicono: non venire, qui non è aria per te. Sono abituato alla semiclandestinità. Per telefono con papà, non dicevamo mai quando ci saremmo visti. Avevamo un nostro codice. Lui chiamava e diceva: “mucosa”. Mi manca Emilia, l’unica che sa. “Mucosa” significava: preparate da bere, sto arrivando. Mi manca questo: mezzo secolo condiviso di cose che non dicono niente a nessuno, ma che a noi direbbero tutto».

Cos’era il gioco delle stelle e del «sono io»?
«Quando Emù arrivava, o qualcuno parlava di lei, aveva questo modo di agitare la mano, ridendo, e dire “sono io, sono io”. L’altra sera, i miei studenti mi hanno portato a un concerto al quale doveva esserci anche lei. Suonava uno di loro, Alessandro, per il quale Emilia stravedeva. A novembre 2019, aveva cantato a una festa che avevo dedicato alle donne Dalla Chiesa, a Emù, a nostra figlia, a nostra nuora. Lei aveva cantato “oh fattorino dal ciuffo nero, fora il biglietto, al passeggero”. Come faceva lei, con l’accento russo, poi francese, poi tedesco… Non immaginavamo che sarebbe morta. Insomma, l’altra sera, Alessandro ha aperto la serata dicendo che la dedicava a una donna speciale, a Emilia. E io ho pensato: se lei fossi qui, agiterebbe la mano e, sorridendo, direbbe “sono io, sono io”. Faceva sempre così ed era sempre divertente».

Quando lei era candidato sindaco di Milano, Emilia spiegò che aveva scelto di non lavorare perché voleva stare dentro tutte le cose che lei faceva, non voleva scoprirsi estranea su qualcosa d’importante per lei.
«Ha rinunciato al suo lavoro quando cominciò il maxi processo a Cosa Nostra nel 1986. Quando morì papà, gli promisi giustizia e capii subito che giustizia significava far crescere una cultura dell’antimafia. Andavo a parlarne anche in due città al giorno. Ero sempre via, avevamo due figli . È sbagliato dire che Emilia stesse un passo indietro, ha condiviso tutto e senza mai perdere la sua vena di allegria. Una delle ultime cose che mi ha detto è stata: tu hai dato un senso alla mia vita. E io: tu lo hai dato alla mia. E lei: quello che partiva eri tu. Le ho detto: ma tu eri quella che metteva sempre a posto tutto. Quando fondai La Rete con Leoluca Orlando, nel ’91, al primo comizio, disse, a me, a suo marito: grazie di esistere. Solo quando mi iscrissi alla Margherita non le piaceva: era un partito tradizionale, pensavano alle poltrone e, per una cosa così, non era disposta a stare senza di me. Se andavo nelle scuole, se insegnavo all’università o nella mia scuola di formazione politica Antonino Caponnetto, se c’era un ideale, lei si prendeva il peso fino alla fine. E sapeva essere spiritosa anche quando lottava in prima persona. L’idea delle sedie, per dire, fu sua».

Quali sedie?
«Si era inventata lei il comitato delle sedie. La nostra è una strada tranquillissima, a un certo punto, si popola in modo industriale di prostitute: facevano sesso nelle auto, arrivavano i guardoni. Chiamavamo le forze dell’ordine e non venivano. A uno, risposero: cambi casa. Facemmo una riunione, in 150. Ognuno aveva la sua ricetta: li spariamo, paghiamo dei vigilantes… Emilia disse: andiamo noi in strada alle 22, ci portiamo le sedie, passiamo la notte seduti lì, ci facciamo il vin brulé. Facemmo così, mettemmo cartelli tipo “bravo, ti stiamo apprezzando”, o “ti stiamo filmando”. In tre mesi, le prostitute sparirono».

Fu anche un’animatrice dei Girotondi.
«Ha dato vita al comitato delle Girandole. Per un processo a Brescia a Cesare Previti, organizzò un treno di donne con le maschere della banda Bassotti. Quando è nato il Pd e misero dentro dei rappresentati dei girotondi, la chiamarono e lei si offese. Disse: mio marito si batte da vent’anni contro la mafia e voi chiamate me per due girotondi? Le risposero che non potevano mettere due Dalla Chiesa e lei disse: mettete lui. Non ci fu verso di farle cambiare idea».

Di che futuro parlavate, nella 600, a vicolo Pandolfini?
«Parlavamo d’amore. Per i primi cinque anni, il nostro è stato per corrispondenza, ci vedevamo a Pasqua, Natale e d’estate. Le ho scritto anche dieci lettere in un giorno, lei rispondeva con inchiostro rosso. Poi mi ha raggiunto, io ero insegnante supplente, lei ha trovato un posto da segretaria precaria all’università, ci siamo sposati nel ‘77, grazie ad amici che ci hanno dato un appartamento gratuitamente. C’erano solo due brande. È cominciata così. Poi, quando i nostri genitori si accorsero che non mangiavamo carne, si incaricarono di portarci da mangiare a turno».

Come si guarda avanti dopo 50 anni di amore?
«Non lo so. Sono convinto che lei vorrebbe che fossi sempre il suo professore. Amava i miei studenti ed era amatissima da loro. Quando stavo in parlamento, mi regalava i maglioni per quando sarei tornato a ricevere i ragazzi».

Come avete scoperto la malattia?
«Un anno e qualche mese fa, aveva sintomi strani, il marito della nipote, oncologo, le suggerisce una Tac al colon: c’era un tumore. L’operazione è riuscita, ma il tumore è tornato, al fegato poi alle ossa. A ottobre, il dolore era tale che, per poterla spostare, l’hanno dovuta legare in verticale a una barella, una cosa da matti. Ha patito sofferenze atroci. Da quel momento sino alla fine, sono sempre stato con lei. Anche per restituirle i giorni in cui ero stato via».

Il momento più duro?
«Forse al Niguarda, quando ci è stato detto che non c’era più niente da fare. Eravamo io e i figli, i nostri Gracchi che Cornelia ci invidierebbe. Abbiamo chiesto la terapia del dolore, la raccomando. Le ha regalato un bel marzo: stava qui sul balcone, in sedia a rotelle, vedeva i tre nipotini. Aprile è stato abbastanza buono. Poi, a maggio, ha avuto un deperimento rapido. E lei ha avuto la grandezza di chiudere in quel modo… Prima di essere sedata, ci ha riuniti per dirci che se ne andava felice e aveva avuto una bella vita. Poteva essere una scena di strazio e invece era di grande serenità. Dopo, ha pure scherzato col medico. Se n’è andata come voleva: sorridendo. Nell’ultimo anno, col dolore, le venivano le frasi d’amore di Vicolo Pandolfini, quelle dei vent’anni, nella 600. Incredibile. Quando ha fatto la sedazione, mi sono messo accanto a lei e ho continuato ad accarezzarle i capelli e a ripeterle sottovoce quelle frasi. Lì ho scoperto qual è l’essenza di un matrimonio… Educare i figli, certo. La fedeltà, certo. Tutte cose vere, ma l’essenza è condividere la buona e la cattiva sorte: è questa la promessa che fai per il futuro. L’ho sentito profondamente mentre, per quattro giorni, sono stato ad accarezzarla. A sussurrare. E, nel dolore, anche a me fiorivano parole di 50 anni prima».

(P.S. avevo scritto originariamente che l’intervista era uscita il 23 maggio e che era stata realizzata da una fantomatica Candida Cannavò.  Quando si dice disorientamento… Mi scuso soprattutto con la bravissima  Candida Morvillo)

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