La relazione della Commissione antimafia. Le pagine della vergogna

L’Unità – Giulio Andreotti? Perseguitato in un processo senza prove. Totò Cuffaro? Una Maria Teresa d’Austria rediviva, instancabile promotore di nuova cultura civile. La geografia di Cosa Nostra? Palermo più Trapani meno importanti della sola Agrigento, della sola Messina, della sola Caltanissetta. La mafia e la ‘ndrangheta -e il riciclaggio dei loro capitali- in Lombardia? Praticamente inesistenti. E ‘ la sintesi brutale, semplificatrice, ma sincera della “Relazione conclusiva” della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia che la maggioranza vorrebbe approvare a rotta di collo per Natale.
Millecinquecento pagine organizzate secondo criteri discutibili, ma di assoluta decenza. Un taglio narrativo eterogeneo, che va dalla copiatura del saggio sociologico alla arringa difensiva, dalla invettiva personalistica alla radiografia giudiziaria, con sprazzi prolungati di buona cultura istituzionale. Ma nel complesso una vergogna. Anzi, una delle più grandi vergogne di questa legislatura. E una delle più grandi vergogne della storia dell’Antimafia. Conoscendo il presidente della Commissione, il senatore Roberto Centaro, faccio fatica a credere che questa sia tutta farina del suo sacco, come egli ha ovviamente rivendicato. Si sente puzza lontano un miglio di grande operazione politica; una di quelle operazioni volute dall’alto e che vorrebbero erigersi come spartiacque nella storia tormentata delle nostre istituzioni. Per cambiare torti e ragioni sfregiando la verità. Per trasformare le vittime in offensori e viceversa, secondo l’aureo motto del cardinal Mazarino che Giulio Andreotti amava citare quando era al culmine del proprio potere. E con l’obiettivo di farlo subito, il più presto possibile. Per gettare il peso della Relazione sulla campagna elettorale. Per portare sul banco degli imputati i magistrati scomodi e stabilire l’innocenza degli imputati (assolti, prescritti, condannati o in attesa di giudizio) nella sfera -perfino- della morale e della politica. Per impedire all’opposizione di avere il tempo necessario a produrre una Relazione di minoranza organica e completa.
Millecinquecento pagine che rifiutano per principio quella sintesi, quella brevità che paradossalmente si contesta alla pubblica accusa palermitana di non avere praticato con l’effetto (questo il rimprovero) di confondere, annacquare, sovvertire la verità attraverso mille sparsi rilievi. Millecinquecento pagine di cui quattrocento incredibilmente dedicate ai processi Andreotti. E si dice “incredibilmente” non perché quei processi non siano in grado di illuminare la realtà dei rapporti tra mafia e politica. Eccome se li illuminano, solo che li si voglia leggere davvero, a partire dalla sentenza finale della Cassazione (i provati rapporti con Cosa Nostra almeno fino al 1980). Ma perché, semplicemente, la Commissione non si è mai, e si sottolinea il “mai”, occupata di quei processi. E dunque non ha alcun titolo per dedicar loro quasi un terzo dell’intero volume. Da sempre, infatti, la Relazione della Commissione tira, come è ovvio, le somme del lavoro svolto, lo riorganizza, lo rielabora, lo porta a sintesi. Indica al parlamento e al Paese la verità trovata sul campo, nelle audizioni romane o nelle audizioni e nelle visite condotte in missione. Fa proposte legislative e valuta l’effetto della produzione legislativa già approvata in materia. Non affronta mai materie di cui non si è occupata. Per l’evidentissima ragione che su quello non ha proprio da fare alcuna “relazione”.
Perché dunque questa autentica ingiuria al profilo istituzionale di quella Commissione antimafia che venne voluta negli anni sessanta per combattere e non per coprire i rapporti di complicità tra mafia, amministrazione e politica, e davanti alla quale -proprio per questo e a dispetto di ogni ambiguità possibile- vennero per la prima volta esplicitamente indicati i rapporti tra le cosche e Vito Ciancimino e Salvo Lima, allora potentissimi capi della politica siciliana? La risposta si può trovare nella stessa Relazione. Ed è la seguente. Bisogna occuparsi di quei processi, ed esprimere su di essi l’opinione della maggioranza politica (attraverso un’arringa difensiva che non è stata scritta sicuramente da nessun tecnico o consulente della Commissione ma che ha tutta l’aria di venire diritta da qualche ambiente professionale assai vicino alla difesa) perché la lettura che ne viene data dei rapporti tra mafia e politica punta ad assolvere definitivamente il senatore Andreotti anche in sede di verità storico-parlamentare. Punta cioè ad aggiungere a una pretesa (ma inesistente) innocenza penale anche una innocenza politica. A colpi di maggioranza. Come se anche la verità storica potesse essere statuita riunendosi di corsa e facendo la conta delle mani disposte ad alzarsi. Disposte ad alzarsi, più precisamente, sotto il ricatto incombente delle candidature al parlamento. Da decidere entro trenta o quaranta giorni, sotto il più micidiale controllo che le segreterie di partito, grazie alla nuova legge, abbiano mai avuto.
Bisognerà tornare e ritornare, scrivere e ancora scrivere e raccontare, su una Relazione che spiega come pochi altri documenti perché in Italia non si riesca a sconfiggere la mafia. Ma intanto va segnalato il modo in cui viene affrontato il maggiore scandalo attuale, quello del governatore della Sicilia Totò Cuffaro, in stretti rapporti d’amicizia e d’affari con il re delle cliniche siciliane Michele Aiello, a sua volta legato agli ambienti di Cosa Nostra più vicini (lo ricorda di sfuggita in altro passo anche la Relazione) a Bernardo Provenzano. Tanto da avere svolto la funzione di Supertalpa al servizio della combriccola, per avvertire che le talpe semplici impiegate in procura erano state scoperte. Ecco che cosa si dice del Governatore: “Anche l’attività svolta dalla Regione Siciliana è indice di un’accresciuta sensibilità nei confronti del fenomeno mafioso. L’on. Cuffaro, nella sua veste di Presidente della Regione, ha elencato una serie di iniziative amministrative (….) che vanno lette come momenti di impegno per la legalità e contro la presenza della mafia nell’economia, nelle istituzioni e nella società civile”. Io veramente dell’audizione del Governatore siciliano, tenuta a Palermo alla fine di marzo del 2004, ho un altro ricordo, e ne trovo conferma nei miei appunti. Ho il ricordo di un signore che risponde affabile e diligente finché le domande non pretendono di sapere troppo, non fanno intravedere l’intenzione di qualcuno di rappresentare per davvero una “Commissione di inchiesta”. E che poi cambia registro e fa capire senza giri di parole che se si sceglie la strada dell’inchiesta cruda e irriverente ce n’è per tutti. Per questo, colpito e allertato da quelle parole, scrissi subito un editoriale su queste pagine per chiedere che si stesse bene attenti alle candidature dell’Ulivo alle elezioni europee.
Ora il governatore è andato perfino oltre il suo scopo di allora. Le sue vicende giudiziarie vengono svuotate di ogni significato politico con argomentazioni speciose, senza nemmeno che l’estensore venga sfiorato dal senso del ridicolo. Il fatto è che l’apoteosi di Totò Cuffaro fa parte integrante della grande operazione politica. E in essa, come nell’apoteosi di Andreotti, il rosario interminabile delle leggi della vergogna trova oggi la più coerente conclusione. La legge e la storia scritte entrambe senza pudore. Così da sconciare il senso del giusto e dell’ingiusto degli italiani. E questo, se si permette, è qualcosa di peggio della dittatura della maggioranza. Questa è abiezione delle coscienze.

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