Se l’università profuma di Radio aut

Immaginate una settantina di ragazzi sparsi per l’Italia, da Varese a Messina. Tutti al computer. I più nella propria cameretta, qualcuno in cucina o in una sala soggiorno. Che ascoltano la voce di un adulto che parla da lontano delle mafie e dei sistemi complici. L’adulto racconta e spiega, quasi invisibile dietro le proprie slides. Arriva nelle case come un appuntamento fisso: tre volte a settimana alle 8.30. E’ stato il nuovo modo di tenere corsi universitari, indotto dal Covid. Poche settimane prima che si iniziasse molti temevano il disastro. Chi sa il valore del contatto personale, chi sa quanto sia importante guardare in faccia, negli occhi, gli studenti, temeva il grigiore o perfino la disfatta. Con un assillo finale: come fare gli esami a distanza, come controllare che durante il colloquio non ci sia dall’altra parte del video un suggeritore occulto, un bigino, un battaglione di post-it?
L’adulto ha scelto un’altra strada. Non vi farò domande capitolo per capitolo. Ma vi darò compiti a casa che potrete fare usando tutti i libri che vorrete. Perché quello più importante, alla fine, sarà su una sola domanda: che impatto ha avuto questo corso di sociologia della criminalità organizzata sulla vostra idea del fenomeno mafioso? E allora altro che i libri di testo dovrete andare a prendervi. Ma anche i libri di storia, gli articoli di giornale, le trasmissioni televisive, le discussioni con gli amici, le storie dei luoghi in cui vivete. E non potrete copiare, perché ognuno di voi ha storie irripetibili. Posso assicurare che il risultato è stato straordinario.

Ognuno di questi ventenni sparsi per l’Italia (tra i quali un adulto voglioso di sfruttare la pandemia a fini di cultura e una giovane mamma in arrivo) si è raccontato con sincerità, spesso con riflessioni importanti sulla società in cui ha studiato, ma anche ripescando con memoria vigile quel che ha ascoltato negli anni in famiglia. Stabilendo ponti continui e liberatori con quanto imparato durante il corso. Recuperando immagini e odori (di incendio…) nell’infanzia palermitana, battaglie antimafia paterne nell’adolescenza sui Nebrodi, rivedendo la festa di oratorio a Busto Arsizio e la figlia del boss che vi arriva in Limousine, riascoltando i genitori che raccontano la colonizzazione calabrese di Fino Mornasco. E dando a tutto un senso, una sistemazione teorica. Chiamando in causa le singole lezioni. Ne è uscita una bellissima antologia di problemi e sollecitazioni, indolenze e suggestioni di nuovo impegno di fronte al tema tabù delle classi dirigenti. Ne pubblicherà a giorni una prima parte il sito promosso da laureati, ricercatori e studenti dell’università statale di Milano (www.stampoantimafioso.it).

Qui posso dire che se non ho visto in faccia chi mi ascoltava, se i ragazzi non hanno potuto confrontarsi di persona sulle singole lezioni, altre cose impreviste sono però accadute. Dopo ogni appuntamento gli studenti, rimasti soli, andavano subito a cercare tra i libri delle superiori o tra quelli dei genitori o nella biblioteca del paese nuovi libri: per passare dal caso Cutolo-Cirillo al caso Moro, per saperne di più di Crispi e Giolitti, o dei partiti politici del dopoguerra. E poi ne parlavano con i genitori a tavola, con il risultato di vedere insieme film e vecchi documentari. O di riesumare storie di famiglia. Con la sensazione raccontata da una studentessa di Cremona, Francesca, di avere partecipato a una speciale esperienza radiofonica, con quell’esordio degli appuntamenti in forma di favola: “C’era una volta…”. Ha scritto Francesca che le è sembrato di vivere “42 anni dopo” quel che doveva essere successo a Cinisi con Peppino Impastato. Ragazzi che sentono parlare di mafia stando nelle loro case, da una voce appassionata che arriva dall’esterno. E che cosa dovrebbe desiderare in più un corso sulla mafia?

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 22.6.20)

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